Tra i fenomeni della cultura indiana che maggiormente disorientano l’osservatore occidentale che ad essa si accosta, la casta è senza dubbio uno dei più complessi. Del resto, nel considerare questa sfuggente realtà religiosa, sociale, economica e in parte politica, si è più o meno consciamente portati ad un giudizio di merito da quei concetti sociali di base, che hanno nutrito la storia recente dell’Occidente e che possono riassumersi in due termini: uguaglianza e libertà.
I movimenti ideologici e politici, soprattutto quelli di radice democratica, hanno fortemente contribuito alla formazione dell’ottica individualistica tanto che, se anticamente l’uomo era considerato come “soggetto collettivo” che agiva in funzione delle esigenze della società, oggi l’uomo è un “soggetto elementare”, misura del tutto, che agisce secondo i propri fini, non tanto servendo la società, ma servendosi di essa come mezzo.
Eppure, riferendosi al contesto sociale europeo dei secoli precedenti all’Ottocento (ma anche per buona parte del Novecento), si nota come l’uomo fosse in effetti dipendente dal mondo della sua casata che aveva una reale unità spaziale – la magione avita – e una sentita unità temporale – ciascuno conosceva i propri antenati e già si prefigurava i propri discendenti. E questa casata, una “patria” quasi più vera di quella rappresentata dallo Stato, era inserita in una precisa costellazione d’inferiori e superiori, di gerarchie insomma. Su questo terreno, un approccio al problema castale indiano sarebbe forse stato più facile. Oggi, però, la situazione in Occidente è assai mutata: la famiglia è mononucleare, ha una grandissima mobilità e tende continuamente a comporre e scomporre piccole società – gli amici, i gruppi di lavoro, eccetera.
Da qui il pericolo di accostarsi all’ambito indiano partendo esclusivamente dalla nostra realtà sociale odierna e dai nostri presupposti occidentali, atteggiamento che potrebbe condurre a travisare il significato e le motivazioni della casta o addirittura a darne un giudizio di merito.
Origini remote
Lo stesso termine casta, ad esempio, include già una valutazione: è d’origine ispano-portoghese e deriva dal latino “castus”, “non mescolato, puro”. Invece i termini usati da parte indiana sono varṇa, la cui traduzione più accreditata è “colore”, e jāti, che malgrado alcune divergenze si può rendere come “nascita”. Varṇa propone un modello panindiano, che sta a monte del sistema castale e trae le sue origini da una veneranda antichità. Secondo il Purusasukta, cioè il 90° inno del X libro del Rgveda1, l’intera creazione ha avuto origine dal sacrificio di un essere gigantesco – il Puruṣa appunto – immolato dagli dei. Stessa matrice hanno avuto anche le caste: dalla sua bocca si sarebbero generati i brāhmaṇa, depositari del “brahman”, “autorità religiosa”; dalle sue braccia i rājanya (definiti poi kṣatriya) detentori dello “kṣatr”, “potere politico”; dalle sue cosce i vaśya, addetti ad agricoltura, artigianato, commercio; dai suoi piedi, infine, i śūdra, il cui compito era servire le altre caste.
Varṇa è dunque più una ripartizione teorica che non un dato di fatto reale, anche se probabilmente si ricollega alla divisione funzionale secondo la quale in seno alle popolazioni ārya2 la società veniva ripartita in tre gruppi principali: coloro che gestivano il sacro e si ponevano come tramite fra l’umano e il divino, dai quali ebbe origine la casta sacerdotale; coloro che si facevano garanti di tutte le azioni connesse con la difesa e l’offesa, in altre parole la casta guerriera; coloro che assicuravano alla società il sostentamento e tutti gli ambiti ad esso collegati. In questo contesto la casta dei śūdra sarebbe cronologicamente posteriore alle altre tre e ingloberebbe le popolazioni autoctone incontrate dagli arii durante la loro penetrazione in India e da questi sottomesse. Secondo certa critica il fatto di essere stati gli Ārya di carnagione chiara e i popoli soggiogati di carnagione scura spiegherebbe in che senso va inteso il termine varṇa, colore. 3
Ammesso che le quattro caste classiche siano mai esistite nella società reale e non soltanto in quella ideale, ben presto si frazionarono e si segmentarono in sottocaste e diramazioni territoriali, che hanno finito per assumere quasi maggiore importanza che non la casta stessa. A queste segmentazioni che sembrano aggirarsi attorno alle tre migliaia, viene appunto applicato il termine di jāti nel senso di “nascita, gruppo ereditario”.
Le caratteristiche che permettono di definire un gruppo come jāti sono il rapporto gerarchico, che stabilisce la posizione nel costrutto piramidale della società, la specializzazione in un determinato ambito lavorativo, monopolio del gruppo, le restrizioni in merito al matrimonio e all’assunzione del cibo. Nel tentativo di sintetizzare si può affermare che ogni gruppo è gerarchizzato, specializzato, separato dagli altri e complementare.
Purezza e contaminazione
La gerarchia si basa sulla dicotomia fra puro e impuro che, pur non essendo l’unica causa della formazione delle caste, ne è tuttavia la forma giustificativa più evidente. I gruppi castali che rappresentano in assoluto i due poli di puro e impuro sono rispettivamente i brāhmaṇa, più noti come brahmani, e gli “intoccabili”. Il termine “intoccabili” è di origine inglese; non è corretto come non lo è il termine “paria” derivato dal nome di una delle caste dei paesi tamil, PaRayar o fabbricanti di tamburi, particolarmente impuri proprio perché addetti ad un lavoro considerato fonte di polluzione (la manipolazione della pelle di vacca). In ambito indiano il termine classico per definire gli intoccabili poteva variare – il più usato era caṇḍāla; oggi viene comunemente impiegata la definizione coniata da Gandhi: Harijan, “figli di Dio”.
La realtà sociale del sistema castale è data dunque da questi due apporti ineguali ma complementari, rappresentati dagli estremi appunto da brahmani e Harijan – tra i quali si situano le caste intermedie -, che costituiscono una totalità.
È il grado di purezza a strutturare la gerarchia. L’impurità, che può essere temporanea e quindi cancellata con opportune pratiche, oppure permanente, dovuta a mancanze gravissime o ai natali in una determinata casta, ha radici ben precise: può essere retaggio della propria famiglia, essendo causa ed effetto al tempo stesso della posizione sociale; può generarsi dal contatto con oggetti impuri; può scaturire da processi fisiologici quali la pubertà, i contatti sessuali, il parto, la morte. Ma soprattutto deriva dall’attività lavorativa che il singolo e il suo gruppo castale svolgono.
È proprio il lavoro a stabilire i livelli di impurità. Le professioni che portano a contatto con secrezioni fisiologiche (lavandai, spazzini, pulitori di latrine), con particolari stati ritenuti pericolosi (il parto e quindi le lavatrici, la morte e i becchini), con animali morti e soprattutto con la vacca morta sono lo fonti della polluzione più incancellabile.
Nel contesto della divisione religioso-sociale della casta, la vacca è considerata il simbolo per eccellenza della dicotomia puro/impuro.
Nell’antichità più remota, quando era ancora vivo il retaggio nomade dei popoli ārya, la vacca significava da un lato ricchezza materiale e stato sociale, dall’altro incarnava la mistica forza del sacrificio brahmanico, proprio perché nell’azione liturgica essa era il mezzo principale. Offerta in un primo tempo come vittima sacrificale, della vacca vennero in seguito utilizzati solo i cinque prodotti considerati santi e purificatori: latte, burro, ghi (burro chiarificato), urina, sterco.
Le strette correlazioni che esistevano tra il sacrificio e la vacca in un senso e il sacrificio e il brahmano in un altro fecero sì che l’animale venisse assimilato al brahmano per identità liturgica. Questo spiega come mai l’uccisione della vacca è vista come un crimine gravissimo. Per un processo di transfer, uccidere lei è come uccidere un brahmano. Da qui l’orrore per professioni quali quelle dei macellai, dei cuoiai e di tutti coloro che hanno a che fare con la vacca morta. Di questa possono occuparsi solo gli Harijan.
Il carattere sacro della vacca è pertanto socialmente funzionale nel quadro di puro e impuro: da viva appartiene alle caste più alte e le santifica; da morta è appannaggio dei fuoricasta e li carica di contaminazione.
Ma se è vero che i lavori più impuri toccano agli Harijan, è altrettanto vero che essi sono indispensabili alla struttura gerarchico-religiosa della società, poiché soltanto se in seno ad essa vi è un gruppo che si fa carico dell’impurità gli altri gruppi possono conservare la loro purezza. Che ne sarebbe del brahrnano se questi dovesse lavarsi la biancheria, pulire strade e latrine, allontanare gli animali morti? L’estrema vulnerabilità dei brahmani alla contaminazione – tanto che si potrebbe affermare che i veri “intoccabili” sono loro – rende indispensabile per la sopravvivenza del sistema che qualcuno assuma su di sé tutti i contatti causa d’impurità: gli Harijan, appunto.
La professione non è quindi una libera scelta individuale ma il retaggio del proprio gruppo di appartenenza. Questa suddivisione del lavoro, castale ed ereditario, aveva condotto l’India, in un passato non troppo remoto, ad un’altissima specializzazione.
Del resto, fino all’avvento della colonizzazione inglese e in molte zone fino a tutt’oggi, la ripartizione e l’interazione delle varie professioni hanno costituito la base dell’economia di villaggio. E è il villaggio, vale sottolinearlo, il perno della vita indiana: per motivi essenzialmente climatici e geografici deve essere autonomo il più possibile e questa autonomia, sviluppatasi già in epoca protostorica, era garantita proprio dalla distribuzione del lavoro a gruppi specializzati.
Jajmānī è il termine indiano impiegato per definire l’insieme delle prestazioni e controprestazioni assicurate dalle jāti nell’ambito della stessa zona o dello stesso villaggio. Il nome deriva dal participio medio yajamāna, “colui che fa eseguire dei sacrifici”, da cui a sua volta trae origine jajmān, cioè il capofamiglia che impiega un brahmano per fare compiere i sacrifici prescritti al proprio stato. Se jajmān è “colui che impiega”, necessariamente dovrà esserci anche “colui viene impiegato”, prajā; così la complementarità è di nuovo assicurata 4.
Jajmānī significa dunque, in ultima analisi, il privilegio – con diritti e doveri – di esercitare una determinata funzione le cui origini sono religiose e quindi connesse nuovamente con la sfera del puro e dell’impuro. Una sorta di cooperazione, insomma, che dovrebbe assicurare a tutti la sussistenza in misura della loro funzione socio-religiosa. Tuttavia questa interdipendenza lavorativa è gerarchica e perciò non è strutturata in modo egalitario (anche se il termine “egalitario” applicato all’ambito castale è un giudizio di merito occidentale e quindi estraneo all’ottica indiana). Nel villaggio o nella zona esiste una jāti dominante (che, come vedremo in seguito, non è necessariamente la più alta nel senso del puro e dell’impuro), che esercita una serie di poteri sulla terra e che impiega per determinate prestazioni delle altre jāti che vengono a trovarsi in posizione clientelare e che sono retribuite non tramite denaro bensì con l’accordare loro una serie di diritti e benefici connessi con l’usufrutto della terra 5. La jāti dominante si assicura degli specialisti e questi, a loro volta, trovano in essa la loro assicurazione. È un circolo chiuso nel quale la comunità, cioè l’organico, prevale sul singolo e nell’interdipendenza fra religioso ed economico esiste alla base una netta prevalenza delle motivazioni religiose.
Aggregazione e separazione
E fin qui abbiamo cercato di illustrare, sia pure a grandi linee, in che senso la jāti sia un gruppo gerarchizzato e specializzato. Resta ora da analizzare la sua “separazione” dagli altri gruppi, separazione che si manifesta con le restrizioni in merito al matrimonio e al cibo.
La jāti è endogamica, cioè ammette soltanto i matrimoni nel proprio ambito, secondo norme ben precise. Tuttavia anche l’endogamia è soggetta a gerarchia: esistono matrimoni “primari” e matrimoni “secondari”, ove la sacralità e quindi l’importanza – sempre in connessione con puro e impuro – sono diverse. Le regole endogamiche strette valgono soprattutto per il matrimonio primario, cioè per la prima volta che ci si sposa. L’uomo sceglierà dunque la compagna nella propria casta, però fuori da un determinato cerchio di parentela, contraendo quel tipo di unione che i testi giuridici classici definiscono anuloma, “seguendo il pelo”, in altre parole “per il verso giusto, conforme”. La donna, nella maggioranza dei casi, tende all’ipergamia, a sposare cioè un uomo di condizioni superiori e perché ciò avvenga si arriva anche a trasgredire le regole più strette dell’endogamia. Ma anche in questo caso le varianti da casta a casta sono notevoli.
Nel caso, invece, dei matrimoni seguenti contratti in seguito a vedovanza – per la donna, laddove sia possibile, non tutti i gruppi castali ammettono che vedove si risposino – o negli ambienti che riconoscono la poligamia, i dettami endogamici sono molto meno rigidi, cosi come meno fastosa è la cerimonia degli sponsali. Nei matrimoni secondari, dunque, sono ammesse anche le unioni pratiloma, cioè “contropelo, non conformi”.
Altro elemento di “separazione” fra i gruppi è il cibo, soggetto a rigorose prescrizioni in merito alla preparazione e alla consumazione, prescrizioni che non si riferiscono soltanto alle divisioni endogamiche ma giungono perfino a differenziare e separare vari nuclei nel medesimo contesto castale. Può così avvenire che famiglie legate da vincoli di parentela anche stretta non possano assumere cibo secondo una medesima regola. La segmentazione regionale della casta è causa di questa capillare frammentazione riguardo alle modalità alimentari.
Questa estrema attenzione rivolta ai tipi di cibi, alle fonti da cui si sono avuti, a coloro che li hanno cucinati, agli ambienti dove vengono preparati e degustati, ai riti che ne preparano e accompagnano la consumazione e alle persone con le quali si può mangiare, è una preoccupazione che da sempre ha assillato l’indiano ortodosso. Se infatti il cibo crudo in se stesso non è mai veicolo di impurità, il cibo cotto è un pericoloso ricettacolo di contaminazione, in quanto si trova in uno stato intermedio, di transizione; dalla condizione naturale di alimento crudo, attraverso la trasformazione impostagli dalla cottura, entra nell’ambito della condizione umana. Nell’atto di mangiare, quindi, l’organico irrompe con tutti i suoi scompensi nella vita sociale e l’uomo, particolarmente vulnerabile in questo momento, si trova in balia di possibili influssi negativi. Pertanto, soprattutto quando egli non assume cibo da solo o in compagnia dei parenti più stretti e più “puri”, cioè durante festività, matrimoni e situazioni affini, è indispensabile che vengano fornite le più alte garanzie per un’alimentazione incontaminata; un cuoco scelto tra la casta brahmanica, l’impiego dei prodotti purificatori della vacca nella preparazione del cibo, la preferenza accordata a quegli elementi meno permeabili da parte dell’impuro. Così il cibo cotto, bollito, è decisamente più puro del cibo crudo e gli alimenti fritti sono considerati ottimali.
La dieta vegetariana è di gran lunga superiore a quella a base di carne. Sembra, tuttavia, che essa sia stata assunta in ambito brahmanico solo in un secondo tempo, poiché originariamente era uso comune anche presso la casta sacerdotale cibarsi di carne. Probabilmente i brahmani adottarono il regime vegetariano mutuandolo da tutti quei gruppi di rinuncianti – donde scaturirono pure il movimento jaina e quello buddhista – che si erano dissociati dal contesto sociale per dedicarsi in ambienti appartati alla ricerca spirituale. Costoro sostenevano i principi della non violenza e seguivano un’alimentazione strettamente vegetariana, godendo presso la popolazione di enorme considerazione. Desiderosi di non perdere prestigio, i brahmani avrebbero fatto propria sia l’idea della nonviolenza sia la conseguente dieta vegetariana, contrastando così l’influenza dei gruppi ascetici, assumendone alcuni tratti di vita e soprattutto la rinuncia alla vita sociale nello stadio finale dell’esistenza.
In ultima analisi, dunque, la separazione e la coesione in seno al sistema castale sono determinate dalla gerarchia teorica del puro e dell’impuro. Gerarchia “teorica” poiché nella realtà è ben lungi dall’essere così assoluta. Abbiamo visto fin dall’inizio, infatti, come il termine gerarchia abbia una pregnanza eminentemente religiosa: ma il “potere” – nel senso di forza, di temporale, di politico – che posto occupa, allora? Nei livelli primari della divisione sociale rappresentata dalla teorizzazione dei varṇa, la gerarchia non gli accorda alcuno spazio, ma nei livelli secondari ove il varṇa si è segmentato nella jāti il potere assurge alla stessa importanza della gerarchia, quando addirittura non si impone ad essa.
Sacralità e potere
Secondo lo schema del varṇa le due caste basilari sono quella dei brahmani depositari dell’autorità religiosa e quella dei guerrieri detentori dell’autorità politica, separate ma solidali, dalla cui interazione si origina il complesso apparato sociale, in rapporto fra loro di gerarchia – il sacro, il puro – e di potere – la forza, la politica. Il potere è inferiore alla gerarchia, ma subordinandosi ad essa, trova la sua legittimazione. L’artha, l’utile sia inteso politicamente sia economicamente, viene posto ad un livello inferiore del dharma, la legge, il dovere in senso lato. Tuttavia l’artha trova la sua giustificazione in quanto, come forza e potere politico, si fa garante della protezione e della diffusione di tutti quei valori “sacri” sanciti dal dharma, mentre le sue componenti economiche vengono nobilitate dalla particolare formula del “dono”, l’offerta fatta ai brahmani, tramite la quale i beni materiali si trasformano in valori spirituali.
ll re, appartenente alla casta guerriera, è il tramite fra la gerarchia e il potere in quanto concilia artha e dharma, forza e sacralità. Sono comunque i brahmani che gli conferiscono l’unzione, gli infondono saggezza e lo guidano in modo che egli sia lo strumento attraverso il quale il dharma si diffonde sulla terra. In tal modo la gerarchia non è costretta a diventare potere, lo spirituale non si trasforma in temporale e la religione non diventa politica. ll brahmano, vincolato ai dettami tassativi del puro e dell’impuro, non può esercitare la forza; ambito politico ed economico non gli competono.
È quindi materialmente dipendente, però in campo spirituale è l’autorità somma. ll re, dal canto suo, è il vertice assoluto della politica e dell’economia, può e deve esercitare la forza; ma spiritualmente dipende dal brahmano, è privo di quella particolare religiosità officiante presente presso i regnanti di altre civiltà – essendo questa nella cultura indiana demandata unicamente al brahmano -, benché mantenga una religiosità d’origine magico-popolare. Il suo è un potere secolarizzato, trasferito sulla terra e coloro che la abitano.
Quest’equilibrio teoricamente ottimale fra sacerdoti e guerrieri, questa subordinazione del potere alla gerarchia, di fatto è stato spesso abbastanza precario nella realtà storica dell’India.
Un’analisi della casta guerriera alla luce della gerarchia puro/impuro dimostra come questa non si ponga certo alle vette del sistema: gli kṣatriya seguono un regime alimentare carnivoro e praticono la poligamia; alcuni gruppi compiono perfino sacrifici cruenti. Eppure i brahmani sono stati costretti ad ammettere queste “deviazioni” proprio perché gli kṣatriya, detenendo il potere e avendo l’usufrutto della terra, avevano potuto crearsi una vasta serie di clienti, raggiungendo un’importanza e un peso primario nell’ambito del sistema socio-politico.
L’organizzazione castale si basa essenzialmente sul compromesso brahmani/kṣatriya. Dove maggiore è l’autorità diretta e il prestigio del re, minore è la preponderanza del rigorismo brahmanico. Ma non appena l’autorità regia viene meno, ecco che l’assolutismo della gerarchia imposta dai sacerdoti torna ad imporsi. L’irrigidimento del sistema castale e di alcuni tratti estremi dell’Hinduismo si registra maggiormente sotto il dominio musulmano e sotto quello inglese, dove il re hindu come tramite fra gerarchia e potere scompare.
Si può concludere affermando che nella pratica non sono soltanto le esigenze discriminatorie fra puro e impuro a determinare la gerarchia, ma anche l’elemento “forza” gioca un ruolo notevole. ll processo è molto evidente nell’ambito socio-economico del villaggio, in merito al sistema jajmānī che abbiamo visto essere una sorta di complementarietà fra diritti gerarchici differenti sullo stesso oggetto – la terra -, in rapporto a funzioni differenti. La jāti dominante, quella che ha il diritto maggiore sulla terra, riproducendo in scala minore la funzione regia, e che ha una folta clientela a sua volta segmentata in gruppi rivali e fazioni, molto spesso non è quella gerarchicamente più pura, bensì quella che si è imposta sulle altre attraverso la forza. Ed è proprio la forza, il potere, che assicura la mobilità all’interno del sistema castale e permette ad un gruppo di imporsi sull’altro, anche se non va sottovalutata la portata del fenomeno cosiddetto di “sanscritizzazione”, secondo il quale le caste più basse tendono ad imitare quelle brahmaniche nelle caratteristiche più evidenti: alimentazione vegetariana, abluzioni, culto di divinità non violente, veto per le vedove di risposarsi, in modo che anche il cosiddetto politico possa trovare una giustificazione spirituale tanto da diventare autorità. L’imitazione è l’altro fattore della mobilità, nella speranza di essere rivalutati gerarchicamente. È la lenta scalata ai livelli superiori: le tribù considerate fuori dall’Hinduismo passano nelle file degli Harijan e questi, a loro volta, conquistano qualche riconoscimento 6.
L’immobilismo delle caste è soltanto fittizio. Abbiamo fino ad ora parlato sempre di casta, gruppo; e l’individuo? Nel sistema castale l’individualità è tanto più attenuata quanto più è coinvolta nell’interazione; non ci sono, cioè, individui interamente autonomi, come non ci sono individui interamente privi di autonomia. Si tratta di uno stato intermedio fra completamente fuso e completamente differenziato. Eppure le rivendicazioni individualistiche, se vogliamo definirle con termini occidentali però inadeguati, non sono certo mancate sul suolo indiano, anzi. A condurle avanti sono stati i numerosi gruppi di rinuncianti, che fin dall’antichità più remota hanno abbandonato il contesto sociale e il ruolo di uomo collettivo. Che poi molti di loro abbiano finito per organizzarsi in strutture che presentavano a loro volta caratteristiche di gruppo sociale – rinuncianti adepti della stessa disciplina di salvezza e simpatizzanti laici seguaci di questo o di quelguru– è un dato di fatto, ma è altrettanto vero che la congregazione dei rinuncianti e la casta del brahmanesimo differiscono sostanzialmente. La congregazione è socialmente inclusiva poiché accetta devoti d’ogni tipo ed estrazione, ma è decisamente esclusiva dal punto di vista religioso poiché non ammette altro credo, altra divinità, altra disciplina che la propria. La casta, al contrario, tollera diverse credenze religiose al proprio interno, ma non accetta membri esterni ed è assolutamente esclusiva sotto il profilo sociale.
La congregazione, comunque, non si pone in antagonismo con la casta poiché non si prefigge rivendicazioni sociali, ma al contrario persegue intenti religiosi e spirituali. E se pure non ha modificato il sistema castale, ha però offerto all’Hinduismo una serie di acquisizioni e di valori spirituali di enorme portata.
E oggi?
Per concludere, si tratterebbe ora di stabilire quanto sia oggi rimasto immutato e quanto sia cambiato all’interno delle caste. Ma a questa questione è praticamente impossibile rispondere in modo esauriente, sia per l’estrema complessità della realtà odierna dell’India, sia per la differente segmentazione territoriale che hanno avuto le jāti. Secondo la maggior parte degli studiosi le caste, lungi dallo scomparire, stanno rafforzandosi, passando però dall’interdipendenza d’origine sacrale alla concorrenza di stampo politico. Tra le cause più evidenti di questo passaggio si additano l’emancipazione dall’economia tradizionale, le nuove istanze socio-politiche seguite all’unificazione e all’indipendenza del Paese, l’apparizione di professioni moderne priva di alcuna giustificazione religiosa, l’impatto con l’Occidente.
Gerarchia e potere non sono più bilanciati; quest’ultimo sta prendendo un netto sopravvento. Le jāti dominanti tendono a trasformarsi in partiti, in gruppi di monopolio economico e la massa dei clienti viene manipolata con precise finalità politiche, a volte addirittura attraverso ricatti ed intimidazioni – le elezioni sono l’esempio più lampante del fenomeno. I tempi cambiano e il mondo indiano si adegua alla mutata realtà. Ma non è più come in passato quando i brahmani tentavano di accogliere in seno all’induismo gruppi esterni tra i più disparati, trovando loro uno spazio nel sistema organico, pur lasciando ai nuovi venuti le proprie caratteristiche e costumi, e recepivano qualsiasi avvenimento religioso, culturale e sociale che sorgeva sul suolo indiano, gerarchizzandolo, inserendolo cioè nel contesto ortodosso, ai livelli dove era possibile farlo. Di questa grandiosa tolleranza che forse era soltanto la capacità di assimilare qualsiasi cosa adattandola al proprio sistema – consci che l’umano è fatto d’innumerevoli aspetti, addirittura antitetici, ma tutti ugualmente veri, inscrivibili in una gerarchia dove vi erano, è vero, superiori ed inferiori, ma dove tutti erano indispensabili ed avevano una loro specifica collocazione – oggi sembra rimasto poco. Si sta sgretolando sotto i colpi della politica più cruda. L’artha sopraffà il dharma ed in molti ambienti la religione tradizionale viene messa in discussione, contestata.
Se in ambito familiare è ancora profondamente seguita, in ambito sociale cessa di essere la motivazione del sistema. Nel precario equilibrio delle jāti irrompe la forza, non più legittimata dal dharma ma soltanto sostenuta dall’artha, una forza che rischia di diventare violenza. E allora, alla gerarchia iniziale del puro e dell’impuro si corre oggi il rischio di sostituirne un’altra: quella del più forte che prevale sul più debole, del politico e dell’economico che predominano, senza giustificazione, sullo spirituale ormai privo di autorità.
Marilia Albanese
NOTE
[1] Opera sacra per eccellenza, considerata frutto di rivelazione divina. È una raccolta di 1028 inni, divisa in 10 libri di intento devozionale liturgico, ascritta da buona parte della critica al 1500 a.C.
[2] Secondo molti studiosi il concetto di Ārya va rivisto: si tratta di un concetto liguistico e non razziale. Se lo si intende come etnico, allora coinvolge più popoli parlanti lingue affini.
[3] È indubbio, comunque, che ogni compito ha un suo colore e che il bianco è anche simbolo di purezza.
[4] Il termine ed il sistema jajmānī è usato solo nel Nord dell’India; altrove ci sono sistemi simili, ma non uguali.
[5] Il controllo sulla terra e la sua coltivazione sono indispensabili al sistema.
[6] Ciò avviene soprattutto grazie all’impulso dei movimenti religiosi ispirati alla bhakti, l’ardente amore per Dio e la benevolenza verso tutte le sue creature, e quelli incentrati sulla śakti, la potenza divina sotto forma di Dea madre o Grande Dea.