Pochissime sono le informazioni in merito agli arredi usati nell’India antica; oltre ai bassorilievi e alle miniature, alcune notizie le si desumono dal “Kāmasūtra”, il famoso trattato d’arte amatoria composto da Vātsyāyana nel III sec. d.C., nel quale è inclusa una descrizione della dimora del cittadino gaudente e raffinato (capitolo IV). A troneggiare è il letto, “soffice e gradevole a vedersi, ricoperto di immacolata tela candida, più basso al centro” con due cuscini, uno a capo e l’altro ai piedi, e con sopra un baldacchino. Accanto vi sono il divano e il coukī, un sedile basso – strapuntino o poggiapiedi che poteva essere usato anche come tavolino -, una sputacchiera e un cofano per gli ornamenti. Un piolo ricavato da una zanna di elefante serve per appendervi il liuto che, insieme alla tavola da disegno, rivela gli interessi artistici del giovane casanova. Completano l’arredamento un seggio rotondo, un carrello e una tavoletta per giocare a dadi.
Nelle dimore indiane non esisteva una netta distinzione funzionale degli ambienti – ad eccezione delle sale del darbār – l’udienza che il sovrano concedeva in un padiglione pubblico e in un’area dei suoi quartieri privati. Le altre stanze venivano preparate a seconda dei desideri degli abitanti, che potevano decidere di mangiarvi, ricevere gli ospiti, ricrearsi o dormire. Essendo il mobilio ridotto al minimo, il locale si arredava sul momento.
Inoltre, dato il clima, la vita domestica si svolgeva soprattutto all’esterno, sotto le verande, nelle corti o nei giardini. Chi se lo poteva permettere disponeva di quartieri di inverno esposti al sole o riscaldati da condotte di acqua calda, mentre i padiglioni estivi affacciati sui giardini erano rinfrescati da giochi di fontane e da refoli di vento captati da sapienti orientamenti. Brocche dall’imboccatura larga riempite con acqua profumata e cortine di erba bagnata applicate alle finestre servivano per umidificare l’aria nei periodi di maggior calura. Stuoie, tende e tramezzi in stoffa separavano e completavano gli ambienti, i cui pavimenti erano coperti di tappeti. Mensole e nicchie nei muri costituivano i fondamentali punti di appoggio e stivaggio. L’illuminazione era effettuata con lucerne di terracotta o metallo riempite di olio, con lo stoppino di cotone unto di burro.
Le raffigurazioni più antiche d’arredo si trovano sui bassorilievi a partire dal II sec. a.C. e anche qui il mobile dominante risulta il divano-letto, che è passato indenne attraverso i secoli e ha sempre costituito il fulcro della vita domestica, fosse quella di una corte principesca, di un accampamento, di una capanna. Ancora oggi nelle abitazioni più semplici in campagna e in città il cārpāī – il “quattro piedi” costituito da un telaio con altrettanti supporti, sul quale è fissato un intreccio di corregge – è letto, divano, piano d’appoggio, assolvendo funzioni diverse dalla notte al giorno.
Nei pannelli dei monumenti buddhisti di Sanchi, Barhut, Amaravati e Nagarjunakonda i mobili sono alti seggi dagli schienali lavorati, sgabelli e poggiapiedi di fogge diverse, strapuntini, grandi cuscini, cofani, supporti a clessidra per vassoi e sputacchiere. Si dormiva su letti con telai decorati da losanghe e motivi floreali e sorretti da piedini bassi e svasati.
Con l’avvento dei musulmani alla fine del XIII sec. e il successivo diffondersi della miniatura dal XVI in poi, gli interni dei palazzi e delle ricche dimore continuano a mostrare un’essenzialità d’arredo dovuta anche al fatto che cassoni e cassepanche per riporre abiti ed oggetti erano alloggiati in ambienti magazzino e guardaroba mai rappresentati dai miniaturisti. Le pareti dei locali – spesso padiglioni a verande aperti sui giardini – sono traforate da nicchie, elemento ornamentale di grande pregio, che ospitano lampade, vasi, ampolle con piattino e vassoi di frutta. Attorno al divano-letto con bassa spalliera e cuscini cilindrici di appoggio giacciono su splendidi tappeti specchi, ventagli, scacchiere, l’huqqa ovvero la pipa ad acqua, servizi da scrittura, vassoi, cofani, portagioielli, contenitori per il betel – l’involtino da masticare fatto di foglie, noce d’areca e spezie -, brocche, bracieri e bruciaprofumi.
Gli ambienti venivano illuminati da lampade poste nelle nicchie o da altre a stelo, mentre all’aperto le luci erano protette da una sorta di gabbietta, probabilmente di garza.
In una miniatura della scuola Pahari una scena della vita infantile del dio Krishna rivela l’interno di una casa contadina, con il focolare aperto, i contenitori di cibo appesi alle travi del soffitto, la giara dell’acqua e nel muro la nicchia con sportellino a grata che funge da frigorifero. Una scena mitica, dipinta nel XVIII secolo, ma l’arredo è quello che si trova ancora ai giorni nostri nelle campagne indiane: un minimalismo che riflette concezioni di essenzialità e funzionalità, che il trascorrere dei secoli non ha intaccato.
Marilia Albanese